Genio Journal
Il trimestrale dedicato ai giovani che hanno grandi sogni da realizzare
ACADEMY Il mensile dedicato a chi ha grandi sogni da realizzare Soft Skills ISSN 2704-8101 - Genio journal (on line) #28 / ANNO 4 / LUGLIO 2022
Gli autori di questo numero:
Massimo De Donno Giulia Remondino Marta Lieto Magri Giovanni Broccio Chiara Savino Salvatore De Tommaso
Soft Skills Academy
Anno 4 - Numero 28 luglio 2022
DIRETTORE RESPONSABILE Massimo De Donno
IN REDAZIONE Stefano Vecchi
REDAZIONE Via Andrea Doria, 48/B 20124 Milano (MI)
Layout Mario Pascuzzi
Registrazione Tribunale 336 del 6 dicembre 2017 / CODICE ROC 31528 del 21 maggio 2018
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Sommario
Massimo De Donno Let “The Game” begin! alla ricerca dell’uomo perduto (e ritrovato), ossia come “Genio” cambia il mondo.
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Giulia Remondino “E tu? Sei sicuro di saper contare?”
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Marta Lieto Magri Puoi cambiare il tuo cervello?
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Giovanni Broccio Posso darti un feedback? In ufficio ogni persona può essere il capo.
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Chiara Savino Per essere un leader devi avere un atteggiamento “no problem” - 2 a parte
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Salvatore De Tommaso La fortuna non è cieca, va preparata con cura e qualità. La storia di Leonardo del Vecchio.
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MASSIMO DE DONNO
Let “The Game” begin! alla ricerca dell’uomo perduto (e ritrovato), ossia come “Genio” cambia il mondo.
È da un po’ che i temi dell’AI e della ri- voluzione digitale dominano tra quelli che più mi affascinano e, tra le varie let ture sul tema, un libro mi ha particolar- mente colpito: “The Game 1 ”, di Alessan- dro Baricco. Ti consiglio di leggerlo perché riserva delle sorprese interes- santi: qui mi limito a riassumerti i punti chiave e a raccontarti le considerazioni che mi ha ispirato. Baricco si collega idealmente a “I Bar- bari. Saggio sulla mutazione 2 ”, nel quale aveva parlato di un cambiamento in atto di cui era complesso decifrare la portata e l’effetto sull’umanità. Soprattutto, de stavano preoccupazione le giovani gene- razioni: “Incapaci di concentrarsi, dispersi in uno sterile multitasking, sempre attac- cati a qualche computer, vagavano sulla crosta delle cose senza scopo apparente che non fosse quello di limitare l’even- tualità di una pena. Nel loro illeggibile andare per il mondo si intuiva l’annun
(1) Alessandro Baricco, “The Game”, Torino 2018. (2) Alessandro Baricco, “I Barbari. Saggio sulla mutazione”, Torino 2013. cio di una qualche crisi e si credeva di scorgere l’imminenza di un’apocalisse culturale…” Si capiva – prosegue lo scrittore – che ciò aveva a che fare con la rivoluzione di- gitale e la globalizzazione, ma il nuovo tipo di uomini – i barbari, appunto - sembrava voler mandare all’aria tutto il sistema preesistente. L’autore invece so steneva che si trattasse non di un’inva- sione, ma di una vera e propria muta ‐ zione : “Pensavo a quelle virate spettacolari a cui abbiamo dato nomi come Umane simo, Illuminismo, Romanticismo, ed ero convinto che stavamo vivendo un analogo, formidabile, cambio di para digma”.
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Ora, a distanza di qualche anno 3 , Ba- ricco vuole “tirare le somme” della mu- tazione e darle un senso, ripercorren done la storia dagli albori (per lui, il 1978) a oggi. Cosa è successo al mondo? Tutto è stato digitalizzato, trasformato in una sequenza di numeri binari, e ciò ha por- tato, in tempi relativamente brevi (circa quarant’anni) rispetto alla storia del- l’umanità, alla creazione di un “oltre- mondo” immateriale che dapprima ha coesistito con quello materiale. Oggi, dopo anni di netta distinzione tra online e of f line, la nostra vita ha un sistema di “trazione a due motori” (“mondo” mate- riale e “oltremondo” digitale) che si sono ormai fusi, se non addirittura integrati. Basti vedere quanto rapidamente e quanto spesso siamo “connessi”. Baricco usa un’immagine molto cal zante per descrivere il processo che ti ho descritto, ossia la progressiva smateria- lizzazione dell’esperienza: la sequenza “calciobalilla, f lipper, SpaceInvaders 4 ”, dove l’interazione diretta del calcioba- lilla è stata sostituita da quella più me diata del f lipper a quella astratta di Sp ‐ ceInvaders , che ha creato una vera e propria postura , quella oggi dominante: “uomo-tastiera-schermo”. L’evoluzione culmina poi con la fu
sione tra uomo e dispositivo, che viene sentito più come una naturale esten- sione del corpo umano, e l’icona della ri voluzione digitale passa da uomo-ta- stiera-schermo a uomo-smartphone. Si è creata così una “umanità aumen ‐ tata” , che arriva ad avere tante identità (“avatar”) quanti sono i social media di cui è parte ed è tagliata fuori dall’oltre mondo, se ne ri f iuta le regole. Nata per eliminare ogni mediazione tra l’individuo e lo scopo che vuole rag giungere (un mondo “senza sacerdoti”, dunque), la rivoluzione cambia il mondo rinunciando allo scontro tra ideali e cre ando invece dei dispositivi che permet- tano a ciascuno di fare ciò che vuole. Qual è il problema, allora? Le regole del Game e gli algoritmi di funziona- mento sono in mano a pochissime per- sone. Il Game che voleva soppiantare ogni sistema elitario, e distruggere ogni limite, con f ine o sacerdote, ha generato (3) La prima pubblicazione è nel 2006 in 30 puntate su “La Repubblica”. (4) SpaceInvaders : inventato nel 1978 (ecco perché Baricco lo sceglie come “Anno Zero”), è uno dei primi videogiochi “sparatutto”. Lo scopo è eliminare con un laser che si muove in orizzontale, ondata dopo ondata, gli alieni che avanzano verso il giocatore per guadagnare più punti possibili.
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un’élite potente come mai nessuno prima. Il Game sta facendo piazza pulita della pluralità. Nel mercato è diventato persino obsoleto lo scontro titanico tra leader e coleader: non esiste nessun an- tagonista di Google, o di Facebook (In stagram appartiene alla stessa per- sona…). Inoltre, solo alcuni padroneggiano le regole del Game abbastanza da trovare il loro spazio, il loro “tavolo da gioco” – per così dire – e vincere. Perché te ne parlo? Perché mi inte- ressa che f ine fa chi non sa giocare se- condo le regole: proprio quelli che do vrebbero essere i più bravi. Mi riferisco ai cosiddetti “nativi digitali 5 ”, ossia le ge- nerazioni nate dopo il 1985 e cresciute con le tecnologie digitali (oggi in realtà si tende a distinguere tra chi è nato dopo l’invenzione di Google – la cosiddetta “Google Generation” – e chi è nato prima). E indovina un po’ chi è la “Generazione Google”: gli studenti! Impossibile, dirai: smanetto al telefono dalla mattina alla sera! Vero! Ma quanto sei consapevole del diverso valore delle informazioni che trovi sul web? Quanto capisci i meccani- smi commerciali che stanno alla base delle app? Quanto sei capace di gestire la mole di informazioni di cui si bom-
barda ogni giorno? Soprattutto, quanto di ciò che hai a disposizione è per te uno strumento di crescita, anziché una scap patoia per non sviluppare delle compe- tenze? Non è una critica, ma è impor- tante che tu faccia attenzione: sei “schiavo” o “padrone” della tecnologia? E qui entra in gioco “Genio”: la scuola è sempre più anacronistica perché – pur cercando di rimanere al passo con i cam- biamenti – è troppo lenta e ancora si concentra sul programma di studio delle singole materie, anziché sullo sviluppo delle abilità di apprendimento e le com- petenze trasversali ( soft skills ) dei ra gazzi, che la percepiscono perciò come lontanissima dai loro interessi e bisogni. Oltre che lentissima e monolitica ri spetto alle velocità a cui sono abituati. Nella migliore delle ipotesi (facendo una media nazionale), l’istruzione in Italia oggi è in grado di rendere adatto un gio- vane al mondo degli anni ’80. C’è un pic- colo problema, però: siamo completa mente in un altro mondo! (5) “Nativo digitale”, è un’espressione coniata da Mark Prensky nel suo articolo «Digital Natives, Digital Immigrants” del 2001. “Immigrato digitale”, invece, è chi è cresciuto prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. “Tardivo digitale”, invece, è chi è cresciuto senza tecnologia e che la guarda tutt’oggi con dif f idenza.
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Serve qualcuno che ti dia gli strumenti per vincere il Game, per “navigare la complessità”. È vero che c’è stata una mutazione – come sostiene Baricco – ma è anche vero che il bisogno fondamen- tale dell’uomo resta lo stesso: appren dere. La domanda è sempre la stessa: “Perché?” L’apprendimento resta la chiave dello sviluppo del potenziale umano, per cui bisogna usare la tecno- logia al servizio di tale scopo. Genio si sta muovendo sempre più in questa direzione ma, al posto di raccon- tartelo, te lo faccio provare. Apri questo link: https://www.genioin21giorni.it/geniobot/
Che effetto ti fa? Ti piace, eh! Dimmi la verità: avresti dedicato del tempo a ri- spondere a un questionario (cartaceo o online) su come apprendi? Avresti aspettato con interesse dei consigli sullo studio? Direi proprio di no. Invece così è un po’ come se scambiassi due parole con un amico che – guarda caso – è an- che un tutor dell’apprendimento, ti fa imparare “giocando”, recuperando quella dimensione di leggerezza dell’in- terazione che la scuola tradizionale ha perso e salvaguardando contempora- neamente l’alto valore formativo dei contenuti. Vedi cosa sta facendo “Genio”? Quello
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Qui trovi i link al canale Podcast: Itunes https://rebrand.ly/GenioItunes Spreaker https://rebrand.ly/GenioSpreaker Ti consiglio di partire da questi tre: • Cos’è Genio in 21 giorni? • Le credenze rispetto allo studio • Come aumentare la concentrazione e eliminare per sempre le distrazioni. P.S. Per diventare dei provetti eroi di- gitali, come in ogni cosa, ci vuole allena mento: per tre giorni ascolta uno dei podcast che ti indico qui e scrivimi un commento su uno dei tre a tua scelta, sempre su “Sistema di Studio”.
che Italo Calvino suggeriva già nel 1985 nelle sue “Lezioni Americane”, in parti- colare quella sulla leggerezza: “In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pie- tra… Era come se nessuno potesse sfug gire allo sguardo inesorabile della Me- dusa. L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati… Per tagliare la testa di Medusa senza la- sciarsi pietri f icare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nu- vole… Quanto alla testa mozzata, Perseo non l’abbandona ma la porta con sé, nasco- sta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un’arma invincibile nella mano del l’eroe... Cosa intendo? Quel mondo pietri f icato è al tempo stesso un’arma invincibile, perché portatore dei valori propri della dimensione umana, primo fra tutti il pia- cere di imparare: un’avventura senza f ine come quella dei grandi eroi del pas- sato. Il segreto è “tagliare la testa di Me- dusa” e usarla a tuo vantaggio, caval cando le nuvole di questo oltremondo. A quanto pare, dunque, le giovani genera- zioni non sono poi così barbare… Se per caso avessi bisogno di una mano, hai a disposizione l’alleato più po- tente: “Genio”! Scrivimi sulla pagina Fa cebook “Sistema di Studio” e ti chiarirò dubbi, scompensi, perplessità… https://www.facebook.com/groups/sistemadistudio/ Ti do un’altra arma: con Giacomo Na- vone – front man di “Genio” Spagna e Re sponsabile del Marketing, nonché fon- datore di “Genio” insieme a me e a Luca Lorenzoni – ho preparato una serie di podcast che risolvono i principali pro- blemi che puoi incontrare nello studio. Tranquillo, sono delle chiacchierate brevi ma ef f icaci (stile intervista radio- fonica, per intenderci), non delle tirate che non f iniscono più. Ascoltare per cre dere!
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GIULIA REMONDINO
“E tu? Sei sicuro di saper contare?”
Lo so, sembra una domanda per un pubblico diverso, più giovane potremmo dire. Ma, in fondo, ne sei proprio sicuro? Io, per esempio, non sono più in età in- fantile, ma pensa che qualche giorno fa mio fratello Stefano mi ha insegnato a contare… con le mani! E questa non è la cosa più clamorosa. Ora, prendimi pure per una lenta ad imparare (ehm ehm), ma si è trattato della terza volta che im- paro a contare sulle dita! Capisco che tu possa essere curioso. Cosa mi può aver costretto ad imparare a contare sulle dita per ben tre volte? Prima di rispondere a questa do manda, però, voglio farti riflettere su qualcosa: il modo di dire “si possono contare sulle dita di una mano” è molto utilizzato per indicare cose che scarseg- giano; che sono rare. Questo modo di dire, però, non è solo tipicamente ita liano: più o meno letteralmente, lo si trova anche in inglese, in francese, in
spagnolo e in tedesco (a te, se vuoi, la ri- cerca in altre lingue). Interessante è anche notare a cosa viene normalmente associato: la vera amicizia. Se fai una ricerca su Google, in- serendo la frase di cui stiamo parlando, la funzione di completamento automa- tico suggerisce proprio la versione com- pleta del proverbio collegata alla parola “amici” (si può anche partire da “i veri amici si…”). Per molti, infatti, i veri amici sono per definizione pochi. Quelli di cui ci si può fidare ciecamente, quelli che ci saranno sempre, pronti ad aiutarci e a sostenerci in momenti duri, senza aspet tarsi niente in cambio; a festeggiare e applaudirci nei momenti felici, quelli a cui piacciamo per come siamo e non per cosa abbiamo o cosa facciamo. Ti voglio invitare a chiederti “per- ché?”. Perché dovrebbero essere pochi? Perché dovrei davvero poterli contare sulle dita di una mano?
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La qualità finale delle nostre relazioni è un riflesso di quanto noi decidiamo di metterci. Se vogliamo avere tante rela zioni di qualità e, quindi, tante persone che consideriamo veri amici, sta a noi dare il massimo in partenza. Ti assicuro che guiderai con l’esempio: se tu darai 100, l’altra persona restituirà altret- tanto, se non di più. In fondo, il nostro cuore non ha dita, non può esaurire lo spazio e arrivare ad essere troppo pieno. Einstein ha definito la follia come il “fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”. Bene, io voglio offrirti una definizione alternativa, specifica per le relazioni interpersonali: in una rela- zione sana, è follia aspettarsi di ricevere più di quanto si è disposti a offrire. Con questo non voglio dire che tutte le rela- zioni siano bilanciate: essere disposti a offrire molto non vuol dire sempre dare tutto quello che si ha. Quando però si è pronti ad aiutare un’altra persona e a in- vestire nella relazione con lei, questa persona lo sente – magari non a livello conscio – ma lo percepisce, e nella mag- gior parte dei casi sarete in grado di in staurare un rapporto di fiducia e di vera amicizia. Facendo così, non ci sono (quasi) limiti al numero di persone con cui possiamo davvero instaurare rap- porti importanti. Il modo di dire, però, è quello e quello resta. “I veri amici si possono contare sulle dita di una mano”. Come molti pro- verbi, lo sentiamo fin da quando siamo piccoli e, come molti proverbi, manda un segnale molto forte, ma a volte contrad- dittorio rispetto ad altri punti di vista o esperienze personali. Questo in fondo è tipico dei proverbi, ad esempio: “l’unione fa la forza” ma “chi fa da sé fa per tre”. Sento già una comunione di cer- velli che si inceppano per la mancanza di logica di queste affermazioni quando vengono affiancate. Come sappiamo, il nostro linguaggio influenza la nostra realtà, crea la nostra mappa del mondo, fino ad arrivare a mo- dificare la nostra visione degli eventi che in essa si manifestano. Ci sono infatti
modi più o meno produttivi di espri- mersi, che ci permettono di focalizzarci su aspetti diversi degli eventi e prendere in mano (positivamente o negativa- mente, consapevolmente o inconsape- volmente) le redini della nostra esi stenza. Anche attraverso il linguaggio, decidiamo infatti di assumerci la re- sponsabilità di come reagiamo (o pro agiamo) rispetto a cosa la vita ci mette davanti. Siamo la vittima, il problem sol ‐ ver o ancora la persona che, invece di un problema, vede un’opportunità? Il linguaggio inoltre è uno dei modi più semplici per indirizzare il nostro fo- cus (così come quello degli altri; ma que- sta è un’altra storia) in modo da assu mere il punto di vista più efficiente in situazioni diverse. Lo pensava anche San Francesco d’Assisi, pertanto disse: “Fai attenzione a come pensi e a come parli, perché può trasformarsi nella profezia della tua vita”. Come strumento e soluzione, solita- mente si consiglia di utilizzare il più pos- sibile il cosiddetto “linguaggio trasfor mazionale”: come suggerisce il nome, è una pratica tramite la quale ci si concen- tra sul trasformare espressioni pesanti e limitanti in espressioni più sostenibili e motivanti. In questo modo, un “pro- blema” diventa una “sfida da affrontare”: immediatamente, un concetto negativo diventa un’opportunità di crescita. Come con tutte le tecniche che deci diamo di utilizzare, anche per il linguag- gio trasformazionale ci vuole pratica. Tanta pratica. Soprattutto, ci vuole pra tica per sostituire modi di dire incasto- nati nel nostro cervello da anni, come i proverbi! Pensaci: al contrario di parole come “problema”, che, sì, abbiamo sen- tito tantissimo, ma sempre in contesti diversi e spesso con una negazione da vanti (“non c’è problema!”), abbiamo sentito e pronunciato i proverbi sempre con lo stesso significato (non ci si dice “chi fa da sé NON fa per tre”). Abbiamo passato la vita a dire alla nostra mente che quelle associazioni di parole hanno un solo significato. Perciò, ci va mag-
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giore impegno, e probabilmente più tempo, per decondizionare la nostra mente dal significato dei proverbi e dei modi di dire. Visto che, però, ritengo molto impor- tante avere un buon numero di persone su cui poter contare – e da considerare amiche – voglio farti dono di una scor- ciatoia per il caso specifico del modo di dire “i veri amici si possono contare sulle dita di una mano”. In questo modo, mentre lavori sul linguaggio trasforma zionale, potrai già allargare il tuo circolo di amicizie profonde. La soluzione è allo stesso tempo scon tata e apparentemente impossibile: è dare uno shock non all’interpretazione
del modo di dire in sé, ma al suo signifi- cato letterale, imparando a contare fino a molto più di 5 con una mano. E no, non ti sto chiedendo di farti aggiungere dita chirurgicamente! Devi sapere che al mondo ci sono mol tissimi modi diversi di contare con le dita. A tal proposito, Yutaka Nishiyama, professore della facoltà di Economia del l’Università di Osaka, ha scritto, alcuni anni fa, un interessante articolo sulle di- verse modalità in giro per il mondo (1). Queste cambiano drasticamente in base alla cultura e alla posizione geografica. Ad esempio, il metodo per noi più sem plice di contare (quello che usiamo co- munemente), basato sul numero di dita,
(1) Nishiyama, Yutaka. “Counting with the fingers.” International Journal of Pure and Applied Mathematics 85.5 (2013): 859-868 www.osaka-ue.ac.jp/zemi/nishiyama/math2010/finger.pdf
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ha due varianti di base: partendo dalla mano chiusa o partendo dalla mano aperta. Lo studio di questo professore ha rivelato che tendenzialmente le persone che vivono in posti più freddi partono a mano chiusa, mentre chi vive in luoghi più caldi parte a mano aperta. Un altro esempio interessante, legato invece alla cultura, è che, mentre noi usiamo la base 10 (motivo che manda in crisi alcuni bambini quando iniziano a comprendere la partizione su base 12 delle ore della giornata), alcune tribù africane, i cui membri sono abituati a camminare a piedi nudi, contano su base 20 perché utilizzano anche le dita dei piedi. È arrivato il momento di spiegarti per- ché ho imparato a contare tre volte. Par tiamo dalla seconda volta. Devi sapere che durante la quarta superiore sono stata all’estero: ho infatti vissuto per un anno in Cina, con una famiglia di Harbin, nell’estremo nord. Andando a scuola lì, oltre a imparare la lingua e la scrittura locali, ho anche imparato il loro modo di contare. Inizialmente assomiglia molto al no stro: a parte il fatto che si inizia solle- vando l’indice, si tratta semplicemente di sollevare un dito alla volta. In questo modo si può arrivare fino a 5. Il bello ini- zia qui, perché in Cina, con una sola mano, arrivano fino a 10: basta usare delle combinazioni di dita, che puoi tro- vare facilmente su Google (allego qual- che foto per farti capire cosa intendo). Adesso conosci un modo per ingan- nare il modo di dire e raddoppiare i po- sti per i veri amici, perché da 5 siamo già passati a 10! Ma se ti dicessi che, invece di raddop- piarli, potresti moltiplicarli per più di 15? E se ti dicessi che con due mani po- tresti moltiplicarli per 200? Ci sono molti modi per contare (se ti interessa l’argomento, ti consiglio vivamente l’ar- ticolo di Nishiyama), ma ce n’è uno che ti permette di battere gli altri con parec chio vantaggio. Lasciami fare una breve introduzione semantica. Computer è un termine
preso dalla lingua inglese, che vuol dire “calcolatore”! Domanda: ti piacerebbe saper contare come una macchina che si chiama calcolatore? Per la rappresentazione interna delle informazioni, i computer usano il si stema numerico binario (invece di quello decimale): due simboli (di solito lo 0 e l’1, oppure “falso” e “vero”) ven gono combinati in tantissimi modi di- versi per rappresentare ogni tipo di in- formazione. Il sistema binario è il migliore per loro, a causa delle caratte- ristiche fisiche dei circuiti, che sono più efficienti se devono gestire solo due va lor I i l . metodo di calcolo che i computer usano, basato sulla somma di potenze di 2 con valore vero o falso, può essere tra- slato alla nostra mano. Questo è il me- todo che ho imparato la terza volta che ho imparato a contare con le dita. Pare complicato ma è più semplice del previ- sto, fidati! A ogni dito viene assegnata una po- tenza di 2: e due possibili valori: vero (dito solle vato) o falso (dito piegato); in altre pa- role: il dito sollevato significa che devi contare il valore di quel dito; il dito pie gato vuol dire che puoi ignorare quel dit U o n . a volta che si conoscono i valori di ogni dito e le possibili posizioni, è solo una questione di agilità digitale e com- binazioni. In questo modo, con una mano si può contare fino a 31. E se si de- cide di usarne due, fino a 1023! Ogni numero da 1 a 31 ha una sola possibile rappresentazione e ogni rap- presentazione ha un solo valore, per cui non è possibile confondersi. Quindi, per esempio, se sollevi sola- mente il medio e l’anulare, ottieni il nu- mero 12 (4+8); se sollevi il mignolo e il pollice, ottieni 17 (16+1) e così via. Utilizzando 2 mani, poi, si può andare molto più in alto, perché sulla seconda mano le potenze di 2 diventano più grandi:
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Con due mani completamente aperte si arriva a 1023. Un bel passo in avanti rispetto ai 10 a cui arriviamo di solito! Fino ad oggi, forse, hai limitato il nu- mero di veri amici al numero delle tue dita, influenzato dalla cultura, da un modo di dire e da un modo di contare. Adesso hai imparato un nuovo metodo, che ti permette non solo di battere un’associazione di parole limitante, ma che ti apre anche nuove possibilità e nuovi punti di vista. Le mie domande fi
nali per te, in conclusione di questo ar- ticolo, sono: • Quanti altri limiti ti stai ponendo, che sia a causa del numero di dita o a causa di barriere mentali e ostacoli di cui non sei consapevole? • Cosa hai intenzione di fare al ri- guardo?
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MARTA LIETO MAGRI
Puoi cambiare il tuo cervello?
Il cervello è un organo statico e immu- tabile o ha la possibilità di cambiare ed evolvere? L’essere umano è quindi condannato a essere schiavo delle proprie abitudini o può sviluppare nuovi schemi mentali? Questa domanda è stata oggetto di svariate ricerche e complessi dibattiti nel corso degli anni. Il primo a introdurre il concetto di Neuroplasticità è stato Williams James, considerato il padre della psicologia sperimentale negli Stati Uniti, nel 1890. James definì il cervello come: “Materia organica, in sostanza tessuto nervoso, do ‐ tato sotto ogn aspetto di uno straordina ‐ rio grado di plasticità. Una struttura suf ‐ ficientemente malleabile per poter essere influenzata” . Nel mondo scientifico però si è dato sempre più credito alla teoria opposta, ovvero quella che definiva il cervello come un organo statico, come sostenuto dallo spagnolo Santiago Ramòn y Cajal, premio Nobel per la fisiologia e la medi- cina, che nel 1913 aveva affermato: “N el cervello adulto, le strutture nervose sono fisse e immutabili ”. Tale modello, secondo cui le reti neu- rali, le strutture e l’organizzazione di un organismo vivente siano statiche, prive
di ogni possibilità di cambiamento, è ri- masto in vigore per quasi un secolo. Se è vero che in natura tutto ciò che è fermo è morto, si considerava il cervello come un “cadavere”. Con il passare del tempo però gli scienziati hanno sempre più ricono- sciuto la possibilità del cervello di mo- dificarsi nel corso della vita, alla luce del fatto che – tra le sue funzioni principali – ci sia proprio la gestione del compor- tamento e l’archivio dell’apprendimento e della memoria. Nel momento stesso in qui acquisiamo nuove conoscenze, svi- luppiamo nuove abilità o fissiamo qual che informazione nella nostra memoria, il cervello modifica la propria forma reale e fisica per permettere che ciò ac cad In a. particolare è ormai noto che l’ap- prendimento e la memoria siano resi possibili proprio dalla formazione di nuove sinapsi, ossia i punti di contatto tra neuroni diversi, oppure dal rafforza mento di sinapsi già esistenti. Quando questi collegamenti, ripetuti nel tempo, si rafforzano a tal punto da creare cambiamenti permanenti nel no- stro cervello, ecco che nascono le “abi- tudini”, ovvero quella serie di azioni e at teggiamenti che compiamo in maniera automatica.
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biamento perché sempre meno ci dedi- chiamo alla dura pratica e alla costante ripetizione necessarie per imparare cose nuove. Se sei esperto di finanza, leggere ar- ticoli che parlano di borsa o di anda mento del mercato non è esattamente ciò che il cervello intende per “appren- dimento”, perché conosci già la materia. Il vero apprendimento consiste invece nell’allontanarsi dalla propria espe- rienza, da ciò in cui ormai siamo esperti da anni, per tornare a essere princi- pianti di fronte a sfide totalmente nuove. Saprai quindi che stai davvero imparando una cosa nuova quando do- minarla ti richiederà uno sforzo, potrai commettere errori e magari per un certo tempo non ti sentirai a tuo agio, come per esempio imparare una nuova lingua straniera o intraprendere un nuovo sport. A poco a poco, però, mi- gliorerai fino a fare diventare anch’essa un’abitudine. Nonostante le varie controversie e teorie opposte, negli ultimi anni del XX secolo sono sempre maggiori le sco perte a conferma che il cervello adulto mantenga gran parte della plasticità di un cervello in pieno sviluppo: da qui na sce la Neuroplasticità. Il termine Neuroplasticità deriva dal greco plastikos , che significa “plasmato” o “modellato” e possiamo definirla ci- tando le parole di un importante ricer- catore, il dottor Peter Levine: “ La Neu ‐ roplasticità è l’abilità del cervello di assumere nuove funzionalità sulla base di necessità di cambiamento o di azioni per ‐ sonali ”. Questo fantastico potenziale prevede: – la capacità di riparare regioni del cer vello danneggiate; – la possibilità di far crescere e svilup- pare nuovi neuroni (neurogenesi); – l’opportunità di riposizionare neuroni da una regione in cui svolgono un de- terminato compito verso un’altra nella quale possono assumere nuove funzioni e in questo modo modi f icare la rete di connessioni sinaptiche che
Non so se lo sai ma tutto questo è an- che visibile attraverso le scansioni cere- brali: se questi esami si effettuano su persone altamente specializzate in un ambito, per esempio musicisti profes- sionisti che hanno imparato a suonare attraverso un allenamento intenso e co- stante, si possono riscontrare delle de- formità in aree del cervello specifiche. Sebbene queste modifiche aiutino a diventare degli esperti in quel determi- nato settore, l’esperienza accumulata nel tempo rende poi più difficile il cam- biamento. Una delle soluzioni per combattere questo fenomeno è fare in modo che il cervello continui ad apprendere. Se ci pensi, quando sei bambino, tutta la tua vita è un continuo imparare cose nuove e anche molto complesse. Con il passare del tempo questo fenomeno di minuisce e in età adulta, quando smetti di utilizzare la tua mente come potente macchina di apprendimento, ecco che essa inizia a indebolirsi e piano piano a morire. Circa verso i trent’anni, infatti, la salute del cervello inizia a degenerare, a meno che non ci sia un impegno costante nel mantenerlo al lavoro e impegnarlo in un continuo imparare cose nuove. Bisogna però fare una specifica im- portante: “rimanere attivi” non è la stessa cosa di “continuare ad appren de Q re u ”. ello che spesso accade in età adulta, quando ormai abbiamo creato una nostra zona di agio grazie a quello che abbiamo realizzato nella nostra vita, limitiamo la nostra possibilità di cam
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ci permettono di ricordare, sentire, soffrire, pensare, immaginare e so- gnare. Insomma sembra quasi una “magia”. Ora che abbiamo capito che il cervello si può modificare, dobbiamo compren dere in che modo tutto ciò sia possibile. In questo processo ognuno di noi ha un potere enorme: le nostre azioni pos sono letteralmente espandere o con- trarre specifiche regioni del cervello, at- tivando collegamenti assopiti e silenziandone altri non funzionali. Un’informazione basilare per com- prendere questo processo è che il cer vello ha la tendenza a dedicare molto più spazio fisico alle funzioni che il suo proprietario utilizza con maggior fre
quenza, lasciandone poco per le attività che invece compie raramente. Proprio come quando cammini sulla sabbia e al tuo passaggio lasci delle impronte, cosi nel tuo cervello, ogni volta che prendi una decisione, impari qualcosa di nuovo, agisci o smetti di fare qualcosa, si crea un traccia. Possiamo quindi dire che la struttura del cervello rifletta la nostra vit V a i . sto che la naturale tendenza è di creare percorsi stabili che riflettano ciò che svolgiamo più spesso, è anche im- portantissimo allenare l’elasticità e non permettere al nostro cervello di cadere vittima delle abitudini. E tu sai quanto è allenato ed elastico il tuo cervello? Per scoprirlo rispondi a questo test.
DOMANDE
RISPOSTE
mai
a volte
spesso
sempre
La mattina al risveglio segui sempre la stessa routine?
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Per andare al lavoro ti capita di cambiare mezzo o linea di trasporto? Devi uscire dalla stessa porta del supermercato da cui sei entrato per ritrovare la tua auto? Quanto spesso scegli un nuovo percorso per recarti in ufficio o in università?
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Fai la doccia alla stessa ora ogni giorno?
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Invece di guardare la TV a casa preferisci passare la serata con amici?
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Tendi a fare le stesse vacanze ogni anno
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Ti piace provare diversi tipi e stili di cucina?
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Con che frequenza fai la spesa al mercato?
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Mangi da solo/a quando sei al lavoro o in università?
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Cerchi di cominciare nuovi passatempi?
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cambiando degli schemi ormai cristal- lizzati nella nostra mente e addestrare il nostro cervello a confrontarsi con situa zioni nuove ogni giorno, potenziando quindi la sua capacità di adattarsi alle novità che possono presentarsi nella vita quotidiana. Sono tre le caratteristiche che ci per- mettono di capire se un’azione può es sere considerata utile per la Neurobica. Non è necessario che siano presenti tutte e tre contemporaneamente, deve però essercene almeno una. Le caratteristiche sono: – coinvolgere di uno o più sensi in situa- zioni insolite – attivare l’attenzione – abolire la monotonia ma mai in modo banale. Ora che abbiamo capito i principi di base, ti spiegherò tre semplici esercizi che potrai utilizzare fin da subito per sperimentare la meravigliosa potenza della Neurobica.
Punteggio: • 33 o più : stai facendo un ottimo la- voro per mantenere il tuo cervello sano e vitale; • 24 ‐ 32 : hai necessità di apportare qualche cambiamento al tuo stile di allenamento; • 23 o meno : devi iniziare ad allenare il tuo cervello. Ricordati, non è mai troppo tardi. Ora che hai scoperto il livello di “sa- lute” del tuo cervello, probabilmente ti stai chiedendo come puoi migliorarne l’elasticità e mantenere la tua mente sempre giovane e in forma. La soluzione esiste e si chiama Neuro ‐ bica . Questo termine, volutamente scherzoso, nasce dalla fusione delle pa- role “neuroni” e “aerobica” e indica una disciplina volta ad allenare – nel senso letterale del termine – e potenziare o creare nuove sinapsi fra neuroni. Il principio di base che guida questa disciplina è quello di rompere la routine,
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1. Sprigiona l’esploratore che c’è in te Questo esercizio riguarda le strade che abitualmente scegliamo per rag- giungere i luoghi che frequentiamo più spesso, come casa, università, ufficio, su permercato o altri luoghi. Ognuno di noi, quando si trova a frequentare lo stesso luogo, dopo un po’ di tempo tende a de finire il percorso migliore, solitamente quello più rapido, per arrivare a desti- nazione. Se da un lato questa strategia è molto utile al nostro cervello per otti- mizzare le energie, dall’altro induce alla creazione di banali abitudini che ne li mitano l’elasticità. L’esercizio di Neurobica consiste quindi nel sostituire questi percorsi abi tudinari, scegliendo di percorrere strade alternative, oppure cambiare mezzo di trasporto o magari, ogni tanto, scegliere anche di andare a piedi se possibile: un minimo investimento di tempo per un grande beneficio in termini di allena mento mentale. 2. Doccia al buio So che magari stai pensando a un modo per riaccendere la passione nella tua vita di coppia...mi dispiace deluderti ma in realtà non è così! Si tratta di un esercizio semplice e poco impegnativo. La prima volta, che ti troverai sotto la doccia, sperimentala “al buio”: con gli occhi chiusi trova il bagnoschiuma, lo shampoo, regola la temperatura e insa ponati. Questo esercizio, nello specifico, serve a stimolare la parte tattile del nostro cervello che, essendo la meno usata, è sempre un po’ più “addormentata” delle altre. Inoltre, in questo modo, puoi alle nare la tua mente a trovare una strategia alternativa per l’ottenimento di un risul- tato al variare delle risorse disponibili, in questo caso l’assenza della vista.
3. Cambia mano Lavati i denti con la mano non domi nante, includendo l’aprire il rubinetto e mettere il dentifricio sullo spazzolino. Puoi fare lo stesso con ogni attività che svogli durante la mattinata come petti- narti, truccarti, farti la barba, abbotto- nare i vestiti, mangiare o usare il teleco mando della televisione. Questo esercizio ti allena a utilizzare la parte opposta del tuo cervello invece di quella che usi abitualmente. In questo modo tutti le connessioni, le reti neurali e le aree del cervello che si attivano quando utilizzi la tua mano dominante vengono momentaneamente inattivate e sostituite da quelle presenti nell’altro emisfero, le quali, improvvisamente, de- vono dirigere tutta una serie di compor- tamenti che normalmente non gesti scono. Ci sono infine altre attività a cui puoi dedicarti per tenere in allenamento il tuo cervello: come studiare una nuova lingua straniera, scegliere uno sport che non hai mai praticato o imparare a suonare un strumento: ogni volta che ti lanci in una nuova sfida di apprendimento dai sano nutrimento al tuo cervello, che così – malgrado il passare del tempo – sarà sempre giovane e prestante. Ora che sai come tenere in allena mento il tuo cervello inizia subito: la tua mente ha un potenziale enorme, sta solo a te scegliere di sprigionarlo a pieno.
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GIOVANNI BROCCIO
Posso darti un feedback?
In ufficio ogni persona può essere il capo.
Quando torni a casa la sera e sei stres- sato, di solito non è perché non ti piace l’armadio nuovo in ufficio, ma perché hai discusso con qualcuno, il tuo collega ti ha fatto notare un errore con il suo so- lito tono da arrogante oppure perché qualcuno – in veste di capo – ha disprez- zato la tua idea. Il nostro obiettivo è ridurre lo stress: lo so che starai pensando che far fuori i tuoi colleghi sarebbe molto più facile, ma non è possibile. Anch’io più volte nella mia vita ho provato questa sensa- zione di impotenza comunicativa e pro- prio in quei momenti due strumenti mi hanno salvato: uno è utile per esprimere ciò che si pensa rispetto al lavoro degli altri e uno per spiegare come ci si sente rispetto a ciò che ci dicono gli altri. Il feedback: continuo, speci f ico e tempestivo Non vorrei girare il coltello nella piaga manageriale, ma come responsabili, di un’attività o di un ufficio, non possiamo
limitarci a incontrare i collaboratori una o due volte all’anno per dare un feed- back, tranne in casi organizzativamente complessi, la valutazione deve essere continua e strettamente correlata alle prestazioni. Ovviamente se noto un comportamento sbagliato di un mio col- laboratore o collega non posso aspettare l’incontro semestrale per correggerlo e mostrargli il comportamento corretto. Devo agire subito. Vediamo un esempio… “ Brava, bel lavoro! Mi piace soprat ‐ tutto come hai individuato i problemi e il punto sulla criticità degli interventi di lancio del prodotto. La prossima volta espandi ulteriormente questo punto, fa ‐ cendo più domande di precisione e ascol ‐ tando le risposte. Ottimo lavoro! ”. Vi piace? Credo di sì perché non è il classico “Bravo” generico detto per circostanza. Dimostra che prima di esprimere un giu dizio l’altra persona è stata ad ascoltare attentamente e con interesse.
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più utilizzato dal bambino che viene ignorato sistematicamente dalla mae- stra, o peggio dai genitori? Aumentare la conflittualità e i comportamenti ne- gativi alla ricerca di considerazione. Essere sgridati è meglio di essere igno rat Q i. uindi non fate finta di non vedere al cuni comportamenti sbagliati, non ri- mandate, non ignorate: meglio un feed- back non perfetto che nessun feedback, basta solo ricordare di parlare di com- portamenti e non di personalità erro- nee.
Il feedback negativo richiede ancora più attenzione. Si entra in un campo minato ed è ri chiesta una particolare attenzione per non ledere il senso di autostima delle persone a cui è rivolto. Di solito, con tutte le giustificazioni che vengono for- nite, le continue urgenze e priorità ele- vate evitiamo di affrontare il feedback e rimandiamo o utilizziamo ironia per stemperare la tensione. Spesso aspet- tiamo di essere sulla porta per proferire parola e scappare subito. Ad esempio qual è il comportamento
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non è un eventuale sfogo del collabora- tore, quello siamo in grado di gestirlo. È la nostra perdita di controllo di cui ab biamo paura. Sull’ultimo punto esistono tecniche e metodi per agire “in sicurezza”, ma è dif ficile sintetizzarli in un articolo. Spero di avere contribuito a sensibi- lizzare sull’importanza del feedback: non è un compito residuale, è una ca- ratteristica essenziale che mina i rap- porti se tralasciata! Per cui il feedback è una priorità «Alta », anzi “Altissima” e al- trettanto di alta priorità è la capacità di chiedere feedback alla propria squadra di collaboratori. Questo farà di voi un leader della co- municazione.
Le 4 condizioni per evitare il disastro Affrontare tranquillamente e con suc cesso un feedback è questione di capa- cità personale, ma anche di metodo. Richiamo la vostra attenzione su quat tro condizioni necessarie per evitare il disastro, indipendentemente dalle pro- prie capacità personali: • La tempestività : non fate passare troppo tempo! Evitiamo la facile rispo- sta: “me lo potevi dire prima”, o il clas sico “non ricordo, ma quando?” • L’oggettività: devo descrivere bene il comportamento negativo, con evi denze ed effetti dello stesso. Evitate i ri- ferimenti generici e non circostanziati: “sei sempre troppo aggressivo!” • La soluzione: proporre una via di lavoro, un progetto di miglioramento, togliere dallo sterile “è vero/non è vero”; cosa fare insieme per evitare che accada di nuovo. • La calma : il punto critico non è il comportamento dell’altro, ma il nostro. Confessiamolo: quello che ci preoccupa
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CHIARA SAVINO
Per essere un leader devi avere un atteggiamento “no problem”
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Rieccoci qui. Come promesso, in que- sto articolo, ti darò altre dritte su come sviluppare un atteggiamento NO PRO BLEM. Il primo consiglio che ti ho dato nel- l’articolo precedente è stato di imparare a CREARE SCAMBI IN ABBONDANZA e di SUPERARE LE ASPETTATIVE. Oggi ti parlerò di altre cose, estrema mente utili, per diventare una persona che tutti vorrebbero avere nella propria squadra. Antenne diritte e cominciamo! Una persona che ha un atteggiamento “No problem” è una persona FLESSI ‐ BILE. Essere flessibili significa non resi- stere al cambiamento, non osteggiarlo. Chi ha questa attitudine ha la capacità di adattarsi e adattare le proprie strategie al risultato che vuole raggiungere. Non ti dirà mai: “È impossibile! Si è sempre fatto così e si continuerà a fare così!”. Più facilmente ti dirà: “Questa strategia non sta dando i risultati voluti, cosa pos siamo o dobbiamo cambiare?” Chi ha questa capacità non frena il cambia- mento, se può lo anticipa, altrimenti lo cavalca.
Quando invece la resistenza al cam- biamento è alta, si può avere difficoltà ad adattarsi, ad accettare nuove strate gie, ad accettare innovazioni. Una per- sona lungimirante valuta i risultati. Se non sono quelli desiderati è necessario cambiare strategie per ottenerli. Questo è possibile solo attraverso il giusto grado di flessibilità. Le persone flessibili di fronte a soluzioni e proposte nuove spesso dicono: “Ok! Ora capisco come fare e lo faccio. Nessun problema!” Questa caratteristica, tra le altre cose, è tra le Soft Skylls più ricercate nel mondo del lavoro. Come puoi ben immaginare, chi pos- siede questa skill, sa adattarsi al conte- sto lavorativo e alle novità. Qualsiasi sia la mansione da svolgere, riesce a dare il meglio di sé. Ovviamente flessibilità non significa sopportare tutto senza espri mere mai le proprie esigenze, ma essere capaci di modificarsi e rinnovarsi. Il mercato del lavoro muta in modo molto veloce. Le organizzazioni che vogliono essere competitive hanno bisogno di di- pendenti disponibili a cambi, anche im u
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provvisi, di ruoli e compiti. C’è una forte necessità di persone che siano inclini ad apprendere nuove conoscenze quando le loro hard skills diventano obsolete. Essere flessibili significa anche essere creativi. Creatività significa pensare fuori dagli schemi, creare collegamenti originali, proporre cambiamenti. Im- plica coraggio perché non è facile modi ficare schemi e strutture che si usano magari da anni. Ma è una capacità sem- pre più richiesta. I leader, infatti, ven gono anche seguiti per la loro capacità di innovare e di pensare fuori dagli schemi senza farsi troppi problemi per trovare soluzioni migliori. Un’altra caratteristica necessaria per avere un atteggiamento “no problem” è: ESSERE ORIENTATI AI RISULTATI E ALLE SOLUZIONI. La persona con atteggiamento “no problem” è focalizzata sui risultati. Pensa che qualsiasi barriera possa es- sere abbattuta e qualsiasi difficoltà ri solta. È più concentrato sulle soluzioni che sui problemi. Sa che può contribuire a migliorare l’azienda in cui lavora risol vendo personalmente le difficoltà che incontra, evitando che queste arrivino ai suoi superiori. Affronta ogni situazione dicendo al suo capo “Non preoccuparti. Me ne occupo io”. Quanto vale, per un imprenditore, arrivare alla mattina in azienda e trovare qualcuno che con un sorriso gli porta soluzioni a dei pro- blemi? Questo non ha prezzo. La capa cità di risolvere problemi, detta anche PROBLEM SOLVING, permette di far fronte a tutti i tipi di problematiche che si possono vivere sul posto di lavoro: dalla stampante che si rompe, al cliente esigente, alle difficoltà di portare a ter mine un compito. Per giocare questa carta però, bisogna mostrare un atteg- giamento propositivo, ed evitare di la mentarsi, o di chiedere in modo passivo al proprio capo cosa fare di fronte a un’incertezza. Un persona con atteggia mento “no problem” mantiene questo
modo di fare in ogni ambito della vita. Dal lavoro, alla famiglia, alle amicizie. In tutto questo ha un forte SENSO DI URGENZA. Per una persona “No Pro- blem” il momento giusto è sempre “ ADESSO ”. Scalpita dal desiderio di ot- tenere risultati, si attiva tempestiva- mente per realizzare le idee che ha pen sato. Non ha tempo da perdere. Non vuole rimandare, aspettare, procrasti- nare. Vuole solo ottenere risultati, rea lizzare i suoi sogni. E tutto questo vuole farlo in fretta. Ha la capacità di gestire il proprio tempo. Sa organizzare la pro pria agenda. Identificare gli obiettivi e pianificare il processo per raggiungerli. Sa gestire lo stress quando molti impe gni si concentrano in poco tempo. Non perde il controllo della situazione e sa usare in modo proficuo i momenti di calma relativa. È quindi un’abile organiz- zatore. La persona con un atteggiamento “No problem” è ORIENTATA A CRESCERE E MIGLIORARSI . Non si sente mai arri- vata. Non ne sa mai abbastanza. Si sente sempre “positivamente inadeguato” per il proprio ruolo e quindi è costante- mente focalizzato sull’automigliora- mento, continua ad aggiornarsi, è desi deroso di imparare e di crescere, si confronta con i migliori e cerca di emu- larli. Cerca un mentore o dei mentori da seguire e da cui farsi formare. PERDONA E DIMENTICA La persona con un atteggiamento “No problem” sono tolleranti. Sia con se stesse, che con gli altri. Non significa che ignorino i propri errori, o non gli diano il giusto peso, ma li accettano come parte di un processo di apprendimento. Sbagliano, capiscono l’errore, non si mortificano e non si avviliscono ma stu- diano e imparano come non commet terlo più. Se ne assumono la responsa- bilità senza “scaricare il barile”. Sanno perdonare gli altri, perché sono consa pevoli che anche gli altri si trovano in un processo di apprendimento. Non si tra- scinano dietro rancore, rabbia, critici u
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smo, ma anzi aiutano gli altri a miglio- rarsi. Affrontano la situazione comuni- cando, se ce ne fosse bisogno, con le per sone coinvolte. Preferiscono essere “Ok” con le persone con cui hanno a che fare, senza lasciare nulla in sospeso. Questo atteggiamento dà motivazione e deter- minazione alle persone nel raggiungere i propri obiettivi. È UNA PERSONA EMPATICA Una persona con atteggiamento “No Problem” presta attenzione agli altri. La sua attenzione va a come gli altri si pos- sano sentire. Cerca di vedere il mondo con i loro occhi. Cerca di mettersi mo- mentaneamente nei panni degli altri. Dedica alle persone tempo e attenzione con l’obiettivo di creare relazioni. Si con- centra sull’ascolto piuttosto che sul par- lare. Sul far sentire ascoltate le altre per sone. L’incapacità di ascoltare, e di avere un genuino interesse per gli esseri umani, può condurre nel tempo a dover gestire una quantità inimmaginabile di problemi relazionali su ogni livello, la- vorativo e privato. Problemi di cui tal volta non si riesce a capire il senso, la natura e l’origine. Una persona con que
sto atteggiamento, cerca di far parlare le persone che in un gruppo, tendono a ri- manere in ombra, o sono più silenziose di altre. Non disprezza pareri e suggeri- menti perché sa che la chiave di volta, per la soluzione di un problema, può ar rivare in ogni momento. SA SDRAMMATIZZARE E PRENDERSI ALLA LEGGERA Una persona “No problem” affronta i problemi scherzandoci su. In che senso? Non significa dare poco valore alle situa- zioni problematiche. Anzi. Significa usare un’atteggiamento che tende ad al- leggerire la situazione. Quando una per- sona commette uno sbaglio, per esem pio, fa una battuta e ci scherza su. Questo atteggiamento porta l’altro a sentirsi a proprio agio anche davanti ad un errore. In questo modo l’altra per- sona si apre e riesce a ricevere meglio il feedback per migliorare. Qualcuno po trebbe pensare che non sia un atteggia- mento abbastanza serio. Che davanti ai problemi non si possa ridere. In realtà mettere le persone a proprio agio è sin- tomo di grande “cuore”. Mi piace definire così la capacità di mettere davanti l’es-
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